Partiamo subito da un se, alterando l’ordine della fabula: se ieri all’87’ Florenzi non avesse effettuato quel passaggio abominevole, questo articolo non avrebbe motivo di esistere. Meglio essere chiari. Purtroppo, però, quel suicidio tecnico c’è stato e, nostro malgrado, ha generato tutta una serie di pensieri e riflessioni che, col distacco tipico del giorno dopo, portano a un’amara verità: talvolta a condannare la Roma sono proprio coloro che, al contrario, dovrebbero prenderla per mano.
Ieri è toccato a Florenzi, ma appena sei giorni fa è stato il turno di Daniele De Rossi, nativo di Ostia ma simbolo (contrastato) della causa giallorossa. Contrastato su tutto e da sempre, bisogna dirlo; eppure, tra le lamentele incessanti di chi lo ha sempre avversato, quell’espulsione gratuita rimediata a centrocampo contro un avversario da battere (e non da abbattere) è davvero difficile da perdonare, tanto che ieri perfino Spalletti ha deciso di sottrargli la fascia da capitano.
De Rossi perde la fascia e la Roma perde la faccia, dunque. Ma forse il top dei top (qui inteso come diminutivo di toppate) è ancora lungo da eguagliare. Sì, perché se sbagli un passaggio e provochi un pareggio alla seconda di campionato, beh hai sempre margine di recupero; così come se fai un fallaccio e condanni la tua squadra all’estromissione dalla Champions, puoi sempre sperare nell’Europa League. Ma se sbagli un calcio di rigore in una finale di Coppa dei Campioni, conscio che fin lì forse non arriverai per i prossimi 30-35 anni, ecco che allora scatta la frustrazione.
Per chi non l’avesse ancora capito, stiamo parlando di Bruno Conti e del suo errore dal penalty nella partitissima col Liverpool. Correva l’anno 1984: a Roma la Orlandi era sparita da un anno, a Milano nasceva la Lega e, nonostante queste priorità, il nettunense Conti guadagnava le prima pagine dei quotidiani sbaragliando tutto e tutti. Chissà cosa avrebbe pensato poi se gli avessero detto anche che, di lì a qualche anno, suo figlio sarebbe stato odiato quella stessa curva in cui finiva il pallone da lui scagliato, e che avrebbe fatto fortuna altrove. Proprio in quel Cagliari che ieri, tanto per cambiare discorso, ha condannato al purgatorio l’ennesimo simbolo giallorosso.
Francesco Trinca